
IO, PRIGIONIERA A BIRKENAU
Ogni giorno al campo: donne, uomini, bambini erano costretti ad alzarsi all’alba per andare a lavorare, per poi tornare dodici ore dopo, ancora un po’più morti e prosciugati della propria anima.Ai nostri carcerieri non importavano le condizioni in cui ognuno di noi viveva, non importava niente di come stavi, di come ti svegliavi o di come ti sentivi. A Birkenau eravamo solo numeri, portati lì per essere sfruttati e sterminati. Per loro valevamo meno di un animale!Per sette lunghi mesi, dopo essere rimasta sola e aver visto morire i miei cari, amici e compagni di sventura, ho sperato in un “occhio di riguardo” nei miei confronti: ero solo una ragazzina costretta a sopravvivere, circondata dalla morte e da tutto ciò che di più disumano ci possa essere al mondo. Ma niente! Nessuno ha mai provato un minimo di pietà nei miei confronti, tranne una volta.Una sola e unica volta, un giorno come tanti, ho deciso di non presentarmi all’appello mattutino che veniva ripetuto quotidianamente, prima di cominciare i lavori forzati. Durante quell’appello, al freddo e al gelo, non sentivo più il mio nome, ma solo quel numero inciso sul mio braccio e avevo sempre più paura di dimenticarlo: Gloria. Quel nome che per tanti anni avevo sentito pronunciare con amore dai miei genitori, ora era l’ultimo ricordo della mia esistenza!Capitava che alcuni si sottraessero a quel rituale giornaliero, ma sapevamo tutti che, dopo questa scelta, il nostro destino era segnato: le SS venivano a cercarti per tutto il campo e riuscivano a scovarti sempre. Quando ti trovavano, non avevi il tempo di batter ciglio che il fucile sparava: solo la morte ti attendeva. Non accettavano scuse, si lavorava sempre: con la pioggia, con la neve, con la grandine, con il vento freddo che ti trafigge, pure con la febbre e senza forze; e tutto ciò che indossavamo era un pigiama a righe fradicio, sporco e lercio.Ero consapevole delle conseguenze del mio gesto, ma ero stanca di soffrire, di aver paura, di vedere orrori e sofferenze. L’odore della morte intorno a me era una persecuzione, tremavo ad ogni rumore; non volevo più ascoltare nella notte i pianti e di lamenti. Ogni volta che sentivo gli scarponi delle guardie pensavo che stesse scoccando la mia ora. Dentro di me sentivo che era il momento di farla finita. Prima o poi saremmo morti tutti al campo, e lì era meglio prima che dopo! C’è una grande differenza tra vivere e sopravvivere, e di certo a Birkenau non stavo vivendo.Quella mattina ebbi un colpo di testa e mi diressi verso l’ultima latrina: lì accanto c’era un ebreo che si era prestato come aguzzino pur di non morire, era ormai anche lui un nazista quindi un nemico, eppure mi aiutò: ancora oggi, se ci penso, non mi so spiegare il motivo. Quando vide me, una ragazzina impaurita e disperata, che si nascondeva dalle guardie tedesche, invece di denunciarmi, come avrebbe dovuto fare e come aveva sempre fatto con gli altri prigionieri, mi diede una mano.Ecco quello fu, forse, l’occhio di riguardo che avevo tanto desiderato.Mi prese per le gracili braccia, e mi immerse nelle latrine. Quando passò il suo collega, negò la mia presenza. Ero soffocata dalla puzza, immersa negli escrementi, e mai dimenticherò quell’odore, che in quel momento mi sembrò quasi piacevole: ero viva e quell’unico gesto umano, che vidi all’interno del campo di concentramento, mi salvò.Quell’uomo, passato al nemico per salvarsi e che aveva venduto l’anima al diavolo, aveva salvato la mia “dimenticata“ vita, quella vita a cui ero disposta a rinunciare. C’era ancora un po’ di pietà, di umanità in quel luogo dimenticato da Dio? Fu in quel momento che capii che non era stato un caso: era un segno! Sarei stata io la testimone di quell’orrore, toccava a me dare voce al dolore a quegli uomini fantasma, a quelle donne dal freddo grembo, private della loro dignità e di ogni segno della loro femminilità, a tutti i bambini che avevano perso in un attimo la loro infanzia e la loro innocenza, per lottare ogni istante contro il destino avverso.Forse era quello il mio compito. Forse avevo un futuro. A Birkenau ho rischiato di morire in continuazione, ero sempre a un soffio dalla fine eppure sono qui oggi a narrare la mia storia.“Forse c’è ancora un piccolo barlume di speranza ”ecco cosa ho pensato in quella latrina puzzolente; per un momento, infinitamente breve, questa frase mi è balenata in testa. Dopo che la guardia nazista se ne andò, quando ero al“sicuro”, l’uomo mi diede una saponetta per lavarmi e mi fece uscire. L’indomani feci come se niente fosse e continuai la mia lotta alla sopravvivenza come avevo fatto fino a quel momento. Vivendo costantemente sull’orlo del precipizio, ma senza mai sporgermi troppo per non precipitare. La tentazione di lasciarsi andare era forte perché ormai ero vuota dentro: avevo solo me stessa e quel corpo da 27kg, che mi trascinavo dietro, formato solo da ossa e occhi, sentendolo a volte come un peso e altre come un tesoro.Ero a pezzi e ancora oggi non sono tornata intera: le ferite sono ancora aperte e lo saranno per sempre; ferite profonde ed incancellabili. Ho provato a dimenticare, ma le cicatrici non si rimargineranno mai! Non mi riferisco solo a quelle fisiche, come il numero, ma a quelle interiori. Il quel campo di concentramento, che per mesi è stata la mia casa, non ero una persona, ero un animale e da tale ero trattata, se non peggio.Io sono ancora là, con il cuore e con la mente; non lascerò mai Birkenau. Non potrò mai ricordare chi ero prima e non potrò essere la donna che speravo di diventare da bambina. Ma se avessi rinunciato, avrei gettato al vento ogni mia dolorosa e complicata battaglia: ogni mio respiro è stato una lotta ardua. Non so come, sono ancora qua. Io ho vinto, ho vinto contro l’odio, contro la crudeltà e la disumanità.Ma soprattutto ho vinto contro la paura di continuare una “non vita”!
GLORIA LA BUA classe 2° B, Liceo Scientifico